martedì 7 agosto 2007

il martello della felicità

riprendo una cosa che mi ha stupito dal post di skanner
di qualche giorno fa.

Delle venti ragioni che ci rendono
felici, una sola a me pare un pò *innaturale*: l'ultima.

La domanda è semplice: perchè *sposarsi* è una ragione
per essere felici?

Sposarsi non è evento biologico bensì culturale.
Ho la forte sensazione che la felicità sia cosa biologica e
quindi chiedo: si può davvero essere *felici* per un evento
istituzionale?

Forse chi dice che il matrimonio rende felici lo intende in
senso elittico: dice sposarsi (evento istituzionale) per intendere l'ottenimento di
una relazione d'amore e di sostegno reciproco stabile e definitiva (evento biologico),
quando ti sposi dici a te stesso, a colui/colei che sposi e a tutti gli altri,
secondo la formula rituale, che ci ameremo 'finchè morte non ci separi'.

Ma è solo questo? E' solo un modo semplice per dire una cosa più articolata?
Se così è perchè non essere felici per ciò
che ci rende davvero felici ovvero un rapporto di amore stabile?
Perchè dire 'sposarsi' e non, al limite, 'matrimonio riuscito' o meglio, e più
direttamente e naturalmente, 'amore stabile'?

Io capisco che sia l'amore stabile a rendere felici (fine). Non capisco che
renda felici lo sposarsi (mezzo).

A me stupisce è vero, ma è un dato di fatto che è lo *sposarsi* che ci rende
felici. Lo vedo nei miei amici che si sono sposati e che, colmi di
felicità desiderano contagiarti e dicono: dai che aspetti, sposati!
non vuoi essere felice anche tu?

Tuttavia...

Si pensi ad un altro evento istituzionale: laurearsi.
Laurearsi rende felici?
Avete mai pensato a quelle emozioni così cupe e desolanti
legate unicamente al raggiungimento di scopi istituzionali?
Molti di noi hanno lavorato sodo per raggiungere una meta. Anni di
studio al fine di raggiungere un obiettivo.

L'uomo biologico - come gli animali - quando raggiunge un suo fine è soddisfatto.
In alcuni casi, molto difficili da caratterizzare,
è qualcosa di più: è felice. Felicità è qualcosa di intrinsecamente legato
al raggiungimento di propri obiettivi. Quali obbiettivi, è difficile dire.
Tuttavia credo siano obbiettivi naturali, sia individuali che sociali molti
dei quali sono elencati nel post di mauro.

L'uomo culturale ha anche obiettivi istituzionali (laurearsi ad esempio). Avete
notato che spesso quando raggiungiamo questi obiettivi non siamo per nulla
soddisfatti ma, semmai, un pò disorientati? A volte addirittura svuotati?
Ma come è possibile che raggiungere certi nostri scopi sia fattore di disorientamento
invece che di soddisfazione? E' forse perchè sono solo dei mezzi e noi li
perseguiamo come fossero dei fini?
E' forse diverso per lo sposarsi?
Non è che anche lo sposarsi è un mezzo camuffato da fine che raggiunto il quale
magari si è solo disorientati e svuotati?
Non è paradossale che uno desideri qualcosa che crede lo renda felice, raggiunge
quella cosa e felice proprio non è?
Come può accadere tutto ciò?

I mezzi hanno significato rispetto ai fini, li desideriamo fin tanto che desideriamo
i fini ovvero è insensato (non ha nessun significato) prendere il martello
se non si vuole farci qualcosa. Se il martello non fosse mezzo per alcun fine, il
martello non avrebbe alcuna rilevanza, è insignificante.

E se qualcuno dicesse che prendere il martello è una ragione per essere felici?

14 commenti:

simone ha detto...

oppure se uno sa usare solo il martello (o altri strumenti in giro non ne vede) cerca di costruirsi la felicità con quello. for a kid with a hammer, everything needs a pounding. e il mezzo diventa difficile da distinguere dal fine.

ma il martello chi gliel'ha dato? dove l'ha preso? chi gli ha insegnato ad usarlo? perché nessuno racconta di come usare il cacciavite, la sega (pun intended), la cazzuola e il compasso (tu sai cosa, tu sai quando), etc... ed invece c'è SPOSA 2000, o www.fioridarancio.it?

green ideas ha detto...

Come può il mezzo essere indistinguibile dal fine?

Qualcosa è un mezzo in relazione ad
un fine, non ci sono mezzi in natura.

Se poi i mezzi si adattano per un fine al punto da comunicare i fini per cui servono è altra questione. Resta che noi siamo fatti per perseguire i fini (è tautologico) tramite i mezzi.

Non mi è chiaro cosa significa *costruirsi la felicità* con quello che uno sa usare...

cristina duranti ha detto...

Va bene Giò, mi sento tirata in ballo in quanto membro della categoria sposati&(almenofinora)felici. Provo a darti una risposta. La questione biologico/culturale non mi convince, molte cose culturali ci rendono felici secondo quella lista (soldi, storie, cultura d'appartenzenza, meditazione).
Mi sembra che il problema da chiarire sia di tipo semantico: di tutte le varie voci dell'elenco di skanner, "sposarsi" è l'unica che indica un'azione puntuale e (virtualmente) irripetibile...se fosse espressa coerentemente con le altre, dovrebbe suonare piuttosto come "essere sposati". Tutte le altre voci infatti indicano o azioni che si possono ripetere nel tempo (raccontare storie, fare soldi, ridere) o condizioni esistenziali (avere aspettative etc). Diciamo che, tranne in rari casi patologici, ci si sposa poche volte nella vita e, ogni volta, si auspica che sia "quella buona", promettendolo irrevocabilmente. Secondo me, la chiave per capire dove sta la felicità, è nella distinzione tra l'atto di sposarsi e la condizione di sposato. Posso immaginare che tante ragazze, magari soprattutto americane cresciute a forza di wedding-movies, ritengano davvero che l'atto di sposarsi in sè, il matrimonio in giardino per capirci, sia ciò che le renderà felici. Per tutti quelli (come me) che hanno un'idea un pò più disincantata delle celebrazioni e dei momenti istituzionali, l'eventuale felicità dovrebbe risiedere nell'aver attuato il desiderio di cambiare radicalmente la propria condizione di vita e sancendolo con gli strumenti che la cultura, la legge, le tradizioni ci hanno tramandato, ovvero il matrimonio. Insomma, credo di essere in parte d'accordo con te nel dire che non è il mezzo ma il fine a renderci felici, anche se, per tutti quelli che ci credono, è proprio quel mezzo lì e non altri a sancire quell'agognato cambiamento. In altri termini, l'idea dell'intercambiabilità tra amore stabile e matrimonio secondo me non funziona. Io creo che l'amore stabile sia eventualmente una pre-condizione, o meglio una (delle tante) causa che può spingere a volersi sposare. Non ci si sposa per far diventare stabile l'amore, ci si sposa perchè si è convinti che l'amore ci sia, e sia sufficientemente stabile da reggere l'impalcatura di una famiglia. Cioè, poichè tra noi c'è un amore stabile, allora vogliamo cambiare la nostra condizione di vita, segnare una discontinuità con la condizione di "singolo" e sancire socialmente (per chi ci crede anche religiosamente) questo impegno/cambiamento, farci riconoscere da tutti non più, solo, come Giovanni e Cristina, ma come "famiglia XY". Di sicuro è possibile che il giorno dopo ci si ritrovi spaesati, svuotati e ci si senta "singoli" come prima, ma questo significa, secondo me, che è mancato qualche pezzo nel percorso con cui ci si è arrivati. La mia domanda invece è: perchè cambiare la propria condizione di singolo, per diventare una "coppia" o una "famiglia" dovrebbe rendere felici? se l'amore stabile c'è già potrebbe bastare...e poi, è necessario sancirlo socialmente utilizzando lo strumento del matrimonio per essere davvero felici? in entrambi i casi direi di no, non è una ricetta che vale per tutti, anche se, per come la vedo io, molti decidono aprioristicamente di non considerarla, pensando che scegliere di utilizzare il mezzo (matrimonio) possa addirittura compromettere la causa (l'amore stabile).
Detto tutto ciò, spezzo una lancia anche in favore dell'atto in sè, della felicità che può darti il giorno del matrimonio. Io ci sono arrivata senza alcuna aspettativa particolare e, di carattere, non sono emotiva, non piango per i film tristi e non mi intenerisco per le storie d'amore. La grande felicità che ho provato quel giorno è venuta soprattutto dall'incredibile "energia" sprigionata dalla presenza e dall'affetto di tante persone care vicino a me. Lo so che sembra un pò new age, mi sono sorpresa anch'io a pensarlo eppure è l'unico modo in cui sono riuscita a spiegarlo. Sono sicura che esistano molti altri modi per mettere insieme queste energie e per condividere la gioia di una coppia di amici felici, magari anche più originali e creativi. Secondo me vale la pena sperimentare!

green ideas ha detto...

solo per scansare equivoci.

Non è mia intenzione sostenere che *sposarsi* non possa essere evento significante e carico di senso per chi lo fa. Non c'è nelle mie parole
nessun giudizio di valore sullo sposarsi, nè penso sia una scelta che, con le parole di cristina, comprometta l'amore stabile.

La mia riflessione è se sposarsi (inteso come atto istituzionale) sia una *ragione* per essere felici.

Non credo proprio che sia una ragione di felicità quanto non credo che prendere un martello (fatto come fine) possa rendere felici.

Un luogo comune dice: i soldi non fanno la felicità. E' un luogo comune ma è vero.

I soldi possono essere utili mezzi per qualcosa che rende felici, ma in sè (e neppure per Corona) non rendono felici.

Sarebbe interessante capire perchè
nè fare soldi, nè sposarsi in sè rendono felici ma spesso si pensa il contrario.

Skanner ha detto...

Visto che il commento di Green Ideas è scaturito da un mio post vorrei fare una precisazione rispetto alla traduzione dall’articolo di Time. Innanzitutto il titolo originale era un generico “Sposarsi felici”. Le ricerche scientifiche citate sono tre: la prima dice che i single depressi quando si sposano hanno maggiori benefici psicologici di quelli che non sono depressi. La seconda che
coloro che vivono una relazione “committed” (che traduco liberamente con formalizzata) in media sono più felici di chi non la vive, a prescindere da quanto soddisfacente sia la relazione. La terza ricerca, condotta da economisti, mostrerebbe che chi si sposa con una persona felice lo diventa a sua volta. La felicità quindi sarebbe contagiosa e dovrebbe essere inserita nel computo della divisione dei beni…
Al di là di questa puntualizzazione tornerei sulla discussione che ha preso piede. Secondo me molto gioca quel “committed”. Come dice follinianamente Cristina, è la discontinuità a rendere importante lo sposarsi. E nella nostra cultura questo salto è formalmente legato al matrimonio. Se si guardano anche altri elementi che creano felicità (vedi fare più soldi degli altri) spesso è il confronto con un proprio precedente stato o con la condizione in cui vivono gli altri a farci stare bene. Sembra infantile ma è così: è confermato da tantissime ricerche. Vedi il libro “Il denaro fa la felicità” dell’economista Leonardo Becchetti (http://www.libreriauniversitaria.it/denaro-fa-felicita-becchetti-leonardo/libro/9788842083733)
Anche il matrimonio rientra in questo cambio di status. Ovviamente ciò vale a cascata. Chi vive da single sta meglio quando va a convivere. Forse anche per questo motivo in molti temono accordi civili che diano una formalizzazione a coppie che non sono sposate: qualcuno potrebbe sentirsi appagato da una mini-discontinuità. Tornando ai martelli, penso che nessuno possa vedere il matrimonio come un obiettivo se non per una serie di gioie accessorie come la festa, l’abito bianco e le lacrime dei genitori. Per chi non è mai uscito di casa quel giorno è importante perché segna la discontinuità con una fase precedente della vita, anche dal punto di vista materiale (non è più la mamma a preparare il caffellatte). Ma per il resto delle persone le nozze non possono essere nient’altro che un mezzo, una sorta di dichiarazione reciproca a credere in qualcosa. Ci sono molti che possono non sentirne il bisogno. Io faccio parte di questo gruppo. Non sento il richiamo dei fiori d’arancio anche se rispetto chi come Cristina lo ha fatto con convinzione. E non metto in dubbio che ciò possa dare emozioni anche dal punto di vista puramente celebrativo. Per me la discontinuità può essere rappresentata da gesti molto più soft dal punto di vista formale. Una convivenza seria è una forte dichiarazione, un impegno a credere in un progetto. Per una volta le mie aspettative sono inferiori a ciò che posso davvero realizzare.

angelette ha detto...

"Se ti prometto che risponderò di no, almeno una volta mi chiederai di
sposarti?"
"Posso fidarmi?"
(Maryl Streep a Robert Redford in La mia Africa)

caro carissimo bradipo, mi tenti, come mi tenti! sull'argomento matrimonio
mi preparo sin dalle scuole medie, da quando mi hanno inflitto la
borsettina di paglia per il matrimonio di mio cugino vanni, da quando mia
sorella è stata istigata da una tipa piena di lacca a spendere duemila
euro per un abito con 'una manica importante' (grazie a un sostegno
psicologico ha resistito)!!!!! e poi, che bello la discussione filosofica:i mezzi,i fini, i martelli...ucci ucci
sento odore di scopistica! Dunque: la distinzione tra culturale e biologico non ce l'ho tanto chiara,
cioè: ho chiaro che il matrimonio è un'istituzione culturale (prova inconfutabile è fornita dal solito Robert
Redford che usa come argomento contro la matrimoniofila recidiva Maryl
Streep il fatto che solo le oche sono monogame in natura... sarà vero?).
Pero': penso anche che il sesso sia profondamente culturale anzi che proprio la sua 'costruzione' secondo certi
criteri sia una questione cruciale da
qualche secolo a questa parte...se non è biologico il sesso figurati la
felicità, certo se potessimo scodinzolare sarebbe tutto piu' facile, ma
aihmè, non scodinzoliamo. Quindi su questo argomento sono confusa.
Sui mezzi e i fini anche non saprei. Mi sembra che anche qui la questione dipenda molto dai valori in gioco: per qualcuno che crede in un dio creatore amorevole ma giudicatore all'immagine del
cui figlio incarnato si dovrebbe vivere (diggiamo...) il matrimonio puo' essere un mezzo
per realizzare il fine di una vita cristiana, mi pare. ecco, io metterei da parte intanto la questione
religiosa: per chi crede in dio ha senso ratificare la formazione di una
famiglia, per chi crede nel dio cristiano ha senso anche in vista della
procreazione perché la famiglia cristiana (ogni riferimento alla stampa sovversiva è puramente casuale...) è anche immagine di qualcosa di trascendente, mi pare. ma io la trascendenza non ce l'ho.
purtroppo c'ho solo l'immanenza. in dio non ci credo (questo potrebbe
essere usato
un giorno contro di me) e quindi un omino vestito di bianco che mi
minaccia di legarmi per tutta la vita al tipo che ho li' accanto è
un'immagine surreale per me. Come diresti tu: non avendo il fine di una vita cristiana, non ho bisogno di quel particolare martello (sono abbastanza scopistica???).
A parte la questione religiosa, posso dirti perché, per quanto mi riguarda, ma è davvero una questione strettamente personale e non generale, questa istituzione, anche nella sua forma civile, non si accorda con la mia idea di felicità. Semplicemente penso l'amore come un legame solidale che prevede intrinsecamente la
possibilità di uno scioglimento. Un legame umano troppo umano. Non che io auspichi lo scioglimento, ma è possibile e riconosco all'altro e a me stessa questa possibilità: perché dovrei esigere la casa e mille euro al
mese se l'altro si vuole sciogliere? Alla faccia della libertà! è la
questione delle garanzie che è sospetta per me. Non che un rapporto debba restare 'informe', tutt'altro: le persone che stanno insieme si assumono sempre responsabilità, solo che queste scaturiscono da essi stessi, dalla legge morale dentro di loro, come dice Robert Redford, e non da una formalizzazione esterna. La formalizzazione esterna ha un ruolo sociale, così come anche la sfera delle garanzie e dei risarcimenti in cui entrano le coppie sposate ha una funzione sociale e questa, in definitiva, mi sembra tutta orientata alla tutela della procreazione cui mi conduce la mia seconda perplessità... eccola: perché
dovrei affidare il riconoscimento della mia unione ad una istituzione
esclusiva, nel senso che esclude unioni differenti dalla mia, per
esempio quella tra due donne o due uomini? Ecco, potrà sembrare questione di lana caprina, ma per me questo fatto è fondamentale: il fatto che il matrimonio sia riservato agli eterosessuali implica un'idea molto semplice: che solo chi può procreare deve essere inserito in una sfera di garanzia sociale; il matrimonio laico sarebbe quindi un mezzo attraverso il quale la società conserva se stessa, garantisce i figli rispetto agli amanti, dissuade dal moltiplicare la genitorialità e non riconosce quelle coppie 'inutili' che non procreano, come quelle dello stesso sesso; questo è del tutto comprensibile e funzionale, però non è l'idea del mondo che ho io (che prevede abolizione della proprietà privata, poligamia, genitorialità diffusa e politeismo...no, politeismo no, non esageriamo via!)
Ecco, per me il punto problematico è una istituzione escludente che lega i diritti ed il riconoscimento delle persone in modo così fondamentale alla procreazione, per questo me la risparmio. Ma questo non è certo il punto fondamentale per altri, come per cristina e tanti altri che sentono nel matrimonio qualcosa che conferisce senso a loro e non che lo toglie agli altri. Naturalmente è una scelta del tutto rispettabile. E ho assistito a matrimoni molto belli.
Invece il riconoscimento giuridico di un'unione solidale quello sì che mi piacerebbe, il riconoscimento di legami omosessuali, di legami di famiglie atipiche, vere famiglie checché ne dica casini, questo mi piacerebbe molto. Uno fa una festa con la porchetta e i tortelli...questo sarebbe un segno di civiltà (i pacs non i tortelli, cioè...anche i tortelli) ma in un paese dove mastella decide quanto ovuli devono essere impiantati per legge nell'utero di una donna (non so se avete visto il W l'italia di ieri...allucinante!!!) penso che questo non accadrà mai. Purtroppo. Scusate la lungaggine notturna,ma tanto leggono solo quelli interessati al matrimonio... è il mio primo commento allora un abbraccio a tutti. Io non sono sposata, non ho un lavoro, non ho una casa, non ho bambini e non ho nemmeno un analista: conto di raggiungere almeno uno di questi punti prima dei quarant'anni. Penso l'ultimo.

green ideas ha detto...

seconda tornata di equivoci da scansare.

1. sulla distinzione biologico/culturale:

ammetto da subito che è distinzione assai *infelice* (sic!) essendo io convinto che la cultura è parte della nostra biologia e dunque l'uomo biologico e l'uomo culturale sono solo artifizio retorico. Dirò di più: essere *uomo* è intrinsecamente cosa istituzionale.

Tuttavia quando, come nel mio post, culturale si limita solo a *istituzionale* qualcosa resta da discriminare. Io considero le istituzioni come puri strumenti o, foucaultianamente, come dispositivi. Di per sè le istituzioni sono dispositivi (ovvero meccanismi sociali di controllo e coordinamento) neutri nè *buoni* nè *cattivi*.

Con questo intendo dire che a priori non considero nè buono nè cattivo il matrimonio come istituzione. A posteriori, ovvero contingentemente ad una data cultura, può essere o l'uno o l'altro a seconda delle sue funzioni. Ma non è quello che mi interessa.

la domanda che interessa a me è: può il solo fatto di *sposarsi* rendere FELICI?

2. sull'essere in una relazione committed:

La relazione committed (che tradurrei con *seria* o *con impegno esplicito e reciproco*) esiste prima e indipendentemente dal matrimonio. Il che non vuol dire che non sia *istituzionalizzata*, lo è come ogni relazione umana (il commitment è cosa istituzionale).

Tuttavia a me interessava il ruolo in particolare del matrimonio. O meglio dell'aspettativa di felicità legata allo *sposarsi* ovvero quanto uno pensa che sarà felice dopo aver ufficialmente cambiato di status (da nubile/celibe a moglie/marito).

La mia intuizione è che sia *impossibile* essere felici per
il cambiamento di status in quanto tale e che quindi qualora uno perseguisse il cambiamento di status come fine (pensando che sia un mezzo per essere felici) va in contro a delusione certa.

Ogni esempio in cui sposarsi sia visto come un mezzo per altro (per rafforzare la relazione tra due persone, per una piena vita cristiana, etc etc) non è un controesempio. In quei casi sei felice per ciò che ci rende felici davvero.

Sospetto tuttavia che in molti casi non sia così. Si insegna culturalmente che *sposarsi-rende-felici* che *fare-soldi-rende-felici* che *laurearsi-rende-felici* che *ottenere-la-promozione-rende-felici* etc etc e tutti questi fini hanno
ahimè l'amara conseguenza di rendere infelici molti di noi...

simone ha detto...

sui *fini culturalmente indotti*, o *culturalmente resi pensabili* concordo (vd discorso sulla mancanza di una racconto sociale di come andare per altre strade...)

non so però se sia una questione di mezzo scambiato per fine. credo che il matrimonio come fine sia una "semplificazione sociale". ma una di quelle che funzionano (per chi funzionano? per cosa funzionano?)

un correlato oggettivo delle motivazioni (varie e valide) che ci stanno dietro. che sono così varie che l'unico modo per renderle è farne una marmellata di fiori d'arancio. tipo la targa "impiegato del mese " (si parva licet, meryl streep non avertene a male per l'esempio). non credo si possa considerare la targa un fine in sé, ma di sicuro la targa rende concrete varie motivazioni (ad es. angela: per me hai vinto la targa "miglior post della settimana")

which begs the question: un fine è tale in quanto genera motivazione? una volta raggiunto, la motivazione può mutarsi in "il mantenimento del fine"?

sui fini e sui mezzi: scimmie che utilizzano per mangiare strumenti che richiedono movimenti opposti (pinze normali vs. pinze per escargot, ovvero pressione per chiudere vs. pressione per aprire) attivano la medesima area celebrale. semplifico: è il fine a contare e il mezzo è indifferente, o meglio non rilevante.

green ideas ha detto...

affinchè la discussione non abbia fine.

fine è scopo verso cui tende l'organismo e può essere cosa fredda: che la finestra sia aperta.

E' cosa calda in genere quando ha a che fare con *motivazioni* nel senso inglese di motivation ovvero qualcosa che ha a che fare con un feeling esperito (positivo o negativo che sia) che muove all'azione (la fame ad esempio o l'altruismo).

Quasi mai i fini si possono realizzare direttamente e bisogna quindi passare per stadi intermedi strumentalmente connessi che chiamiamo mezzi. I mezzi sono tali e hanno significato solo rispetto ai fini. E solo alcuni fini (non tutti) sono tali da dare piacere o in alcuni casi felicità.

Come dici tu quindi è il fine a motivare e il mezzo non conta, non ha rilevanza.

Quindi concordiamo che perseguire un mezzo come se fosse un fine è impresa insensata per l'individuo.

Nell'esempio che fai sul matrimonio come semplificazione sociale sono d'accordo. In media lo sposarsi è correlato a cose che soddisfano certi nostri fini/motivazioni (avere una relazione stabile ecc ecc) e quindi in media può essere una semplificazione accettabile.

Ma se però resta che lo sposarsi è un mezzo è giustificato insegnarlo come un fine? Non sarebbe opportuno
concentrarsi sui fini e lasciare carta bianca su quella dei mezzi?
E' morale che una cultura sia responsabile della nostra infelicità?

angelette ha detto...

caro impiegato del mese: scimmie che utilizzano pinze per escargots?? certo che le scienze cognitive sono proprio uno spasso... posso venire anch'io?? scusate: ma poi prendono le banane o le costringono a mangiare le escargots..? con quella terribile salsina piena d'aglio... poverine...

Gorgo ha detto...

Personalmente da sposato credo che l'atto in se stesso non dia felicità, è solo roba istituzionale e nient'altro. La felicità deve esserci già prima dell'unione e pregando tutti i demoni degli abissi anche dopo. Io e Megu eravamo felici prima e lo siamo ora, il matrimonio è stata una giornata "particolare" ma niente più. Sposati di lunedì e martedì eravamo a lavoro nuovamente.

Il matrimonio un fine? Assolutamente no. Un mezzo? Ma neanche per idea.

Skanner ha detto...

Giusto Pozzi-San. E' morale che una cultura sia responsabile della nostra infelicità? E ciò non vale solo per il matrimonio...In omaggio alla sintesi: la nostra cultura ci prescrive mezzi che non sempre ci rendono felici. Non sarebbe meglio che laicamente ognuno scegliesse i mezzi che ritiene migliori? Voglio dire: se Cristina e Gorgo hanno scelto il matrimonio come mezzo per essere felici, perchè chi ha deciso di convivere deve sentirsi sempre come un figlio di un dio minore? Perché alla fine è così. Non mi dite che la società considera le due cose equivalenti...Quando avremo la forza di opporci all'istituzione (Stato o Chiesa che sia) che vuole imporci eticamente non solo le sue finalità ma anche le sue soluzioni per raggiungerle? E qui si apre l'ampio capitolo del rapporto tra individuo, istituzione e libertà...

gio' ha detto...

credo che il fatto di sposarsi *n sé* potrebbe rendermi felice. se non altro per la porchetta e i tortelli (per tacer del vino)....

Nico ha detto...

È troppo tardi per inserirmi nel discorso matrimoniale? Sarò radicale: per me il mezzo è quasi sempre il fine (o anche il messaggio, come dice ancora Robert Redford). Per chi fa una vacanza on the road in moto per arrivare da New York a San Francisco (fine) la parte più bella è per l’appunto il viaggio in moto (mezzo). Pensiamo al famoso aumento di stipendio: evento istituzionale nonché venale nel senso più pieno del termine. Eppure può rendere felici, e la felicità non è (quasi) mai venale. Perché a quell’aumento di stipendio è legato inscindibilmente qualcos’altro: la tranquillità dei nostri figli (fatto biologico e istintivo per eccellenza: la protezione dei cuccioli) o anche solo di una vacanza (fatto biologico e istintivo per eccellenza: la protezione del fancazzismo). Non è che i soldi facciano la felicità, ci mancherebbe. Ma nel momento in cui riceviamo i soldi li riempiamo immediatamente di altri significati che hanno molto a che fare con la felicità che Luca definisce “biologica”: se i soldi sono un mezzo per raggiungere un fine, nel momento stesso in cui li riceviamo sappiamo che quel fine è raggiunto, e dunque il mezzo E’ già irrimediabilmente il fine. Sullo sposarsi la mia posizione è molto simile a quella di Cristina e a quella di Angela, quindi credo di avere qualche problema. Dopodiché, la maggior parte dei miei amici sposati sono arrivati al matrimonio senza passare per la convivenza, e dunque quel giorno è stato felice (credo) perché segnava l’inizio di qualcosa di nuovo e completamente diverso. Così come, solitamente, il primo giorno di vacanza è quello più bello, perché sai che ti aspetta qualcosa di magnifico e questa sensazione ti rende semplicemente felice (dove l’agenzia viaggi è l’istituzione che permette quella sensazione di felicità). Questo vale anche per il matrimonio, inteso proprio come atto in sé, inteso (perché no) anche come festa, abito bianco e lacrime dei genitori (che a sposarsi siano coppie etero o gay o sterili è assolutamente ininfluente, è ovvio ed è grave che questo ancora non avvenga). Non posso dire come ci si senta il giorno del matrimonio (in compenso il primo giorno di convivenza è stato terribile). Ma ad esempio “laurearmi” per me è stato bello: meno bello il giorno dopo, meno ancora quello prima, ma QUEL momento (e quel pranzo coi miei genitori e i vostri, in piazza del mercato) è stato magnifico e forse persino felice.
In chiusura: posto che, come dice giustamente Luchino, diversamente dagli animali nell’essere umano non esiste distinzione netta fra natura e cultura, cerco di rispondere alle domande di Luca dando grande sfoggio della mia nota abilità retorica: 1) Non sarebbe opportuno concentrarsi sui fini e lasciare carta bianca su quella dei mezzi? Certo che no. 2) E' morale che una cultura sia responsabile della nostra infelicità? Temo di sì. O non sarebbe responsabile nemmeno della nostra felicità. E allora sarebbe un po’ un casino, credo.